Pellegrini nel Medioevo, Camminare per devozione. Luoghi di sosta e strutture assistenziali.

marzo 26, 2000

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Xenodochia e monasteri furono le prime forme di assistenza a pellegrini e viandanti. Dopo il Mille gli ospizi videro un forte incremento, sia nelle città che nei punti più inospitali dei percorsi. Si trattava di strutture semplici e perlopiù con scarso arredo, ma che offrivano ospitalità gratuita al pellegrino. Solo al termine del Medioevo fu potenziato anche l’ospitalità a pagamento in locande e osterie, ma la qualità del servizio non migliorerà di molto.

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Gli xenodochia, cioè luoghi di rifugio lungo le principali vie di comunicazione dove si poteva trovare ricovero e vitto gratuito, sono attestati fin dal IV secolo: si trattava di strutture della nascente società cristiana, tendenti a sostituire le mansiones e le mutationes romane ormai in decadenza. Ma, in area europea, i primi a praticare sistematicamente l’ospitalità nei confronti dei viandanti furono i monasteri, spesso costruiti di proposito lungo le principali vie di comunicazione.

I Monasteri

L’ospitalità, unitamente all’idea che nel viandante si dovesse vedere Cristo stesso, era un dovere preciso, imposto alle comunità monastiche dalla Regola (cap. LIII). L’ospite del monastero veniva accolto dall’abate, gli si lavavano mani e piedi e si pregava e si leggeva la parola di Dio con lui. All’ora del pasto egli sedeva alla mensa dell’abate, e dopo poteva ritirarsi in locali appositi, adibiti a foresteria, tenuti in ordine da un monaco preposto a tale compito, che dormiva presso la porta del convento, pronto a ricevere viandanti ad ogni ora.

Il capitolo LIII della Regola avverte però la comunità monastica di non esagerare nei rapporti con gli ospiti: essi sono pur sempre portatori di un modello di vita laica e mondana, che può distrarre il monaco dalla sua ricerca di Dio, che prevede l’allontanamento dal mondo. Ecco perché il monaco addetto alla portineria deve essere «timorato di Dio» e solo lui può avere rapporti con gli ospiti; agli altri monaci è permesso solo salutarli, chiedere la loro benedizione, ma in alcun caso è permesso «fermarsi a parlare» (cap. LIII, 24). Questo rischio di distrazione dovette accentuarsi con il diffondersi della pratica del pellegrinaggio ed il conseguente aumento dei pellegrini lungo le strade. Il «pellegrino di professione», pur non esente da motivazione religiosa, viveva a carico degli ospizi, nei quali portava una consistente ventata di mondanità. Diverse Consuetudines impongono al monaco portinaio al mattino di aprire le porte della foresteria solo dopo aver controllato che non manchi nulla; in altre si trova il consiglio di servire vino acido agli ospiti che tardano a riprendere la strada.

Gli ospizi

É anche per questi inconvenienti che le strutture ospitaliere tendono a diventare complessi autonomi. La rinascita dei centri urbani del resto imporrà anche ai vescovi il dovere dell’ospitalità e, più tardi, questo servizio caritatevole sarà fornito anche dalle confraternite laiche, che in questo modo rivendicano un loro ruolo autonomo e attivo sul piano della pratica della carità. Saranno questi ospizi a trasformarsi gradatamente in ospedali per malati o centri assistenziali per orfani. Significativo, al riguardo, è il caso di Santa Maria della Scala a Siena che nacque come ospizio per viandanti, ma che ben presto funzionò anche come ricovero per malati e per i «gittatelli» (bambini d’ambo i sessi abbandonati).

Questo accadeva nelle città, mentre nei punti impervi degli itinerari di pellegrinaggio, come i passi montani, l’ospizio va sempre più specializzandosi nell’assistenza al viandante, considerato povero in quanto non porta nulla con sè. L’ospizio del Gran San Bernardo, sorto verso la metà del XII secolo, è definito «una delle tre colonne erette da Dio in questa terra per il sostegno dei poveri» dalla Guida del pellegrino (libro V del Codex Calixtinus); ad Altopascio invece una campana, la «Smarrita», suonava per diverse ore dal calar del sole, per permettere ai pellegrini, in ritardo sulla tabella di marcia, di orientarsi al buio e tra le nebbie del luogo, e raggiungere ugualmente il rifugio.

Strutture materiali

É difficile ricostruire le strutture materiali di questi luoghi di sosta, o perché trattandosi di un’architettura esclusivamente funzionale ad un servizio non seguiva canoni architettonici precisi, o perché la loro natura prettamente funzionale li ha resi oggetto di continue trasformazioni nel tempo. Come giustamente sostiene Oursel, è improbabile che essi avessero quale modello architettonico la struttura a cavalcavia – sul tipo dei nostri moderni autogrill -, anche se un bell’esempio di questa tipologia si ha a Pons (in Francia). Perlopiù si trattava di vasti ambienti a pianta rettangolare (sul tipo della sala del Pellegrinaio dell’Ospedale di Santa Maria della Scala, a Siena), dove si mangiava e si dormiva. In alcuni casi il dormitorio era al piano superiore, mentre il piano terra era destinato a refettorio, come a Staffarda. In Italia pare che, al di fuori dei centri urbani, fosse abbastanza diffusa la struttura a corte chiusa: cortile attorniato da portici, per il riparo degli animali, e ambienti chiusi. Questi complessi si sono spesso trasformati in cascine: nella nostra zona è un esempio Cascine Strà, immediatamente fuori Vercelli. Tuttavia anche un semplice porticato poteva funzionare quale ricovero per pellegrini: a Eunate, sul Camino spagnolo per Compostela, una chiesa templare è contornata appunto da un portico che fungeva da riparo quando gli ospedali della vicina Puente la Reina erano al completo.

Poco si sa anche sull’arredo. Secondo la Regola, la foresteria era fornita di letti, lenzuola e suppellettili da cucina, ma pare che in alcuni casi addirittura il tavolo fosse un optional: un canto del XIV secolo recita infatti: «non usan [i pellegrin] tavolo per mangiare, ma siedon sulla nuda terra». Probabilmente anche i letti non erano un arredo fisso, ma erano sostituiti da paglia, al massimo insaccata. Del resto quest’uso era comune, come avverte Rösener, presso la maggior parte delle case contadine.

Osterie e locande

Verso la fine del Medioevo si diffonde sempre più l’ospitalità a pagamento ed aumentano osterie e locande. Senza dubbio qui il trattamento doveva essere migliore, anche se la logica del profitto poteva riservare sorprese. Denis Passot (pellegrino a Gerusalemme nei primi anno del cinquecento), avverte che al «Casale della Tavernetta», prima di arrivare all’ospizio della Novalesa, vi erano «taverne per riposarsi e alloggiare, e del buon vino», mentre Erasmo da Rotterdam afferma che le taverne tedesche (Colloqui, Locande) avevano tovaglie che sembravano di «canapa strappata dall’albero di qualche nave», le lenzuola andavano «al bucato una volta ogni sei mesi» e il trattamento dei cavalli era identico a quello degli uomini.

apparso su “La Vita Casalese”, Speciale Giubileo, 26 Marzo 2000, p. 6.

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